E’ situato a nord-ovest di Calepio, posto sulla fascia collinare delimita dai monti dell’Ingannolo, della Croce e del Castello, quasi a dominare lo sbocco dell’Oglio e del basso lago d’Iseo, su un’estensione territoriale di ha. 311, ad una altezza variabile tra i 460 e i 625 mt. s.m.
L’origine del nome è incerta e dibattuta. Vi è chi afferma che derivi da “Grande dosso”; altri sostengono la derivazione da “Rovina di sassi”. Peraltro la posizione del paese e la natura geologica del terreno potrebbero giustificare l’una e l’altra affermazione.
Fin verso il tramonto del secolo XVIII Gandosso fu contrada di Calepio subendone quindi di riflesso le vicissitudini storiche e militari, i suoi contadini erano quasi tutti livellari di quei Conti.
Nel 1668, in forza delle leggi ducali del 10.12.1667, con le quali la Serenissima Repubblica Veneta permette agli abitanti di erigere la chiesa e stipendia con 100 ducati d’oro il sacerdote che la reggeva, Gandosso diviene parrocchia.
Proprio all’inizio del 1706, in paese viene ucciso un rappresentante della legge e le truppe dei Gallispani, per rappresaglia contro la popolazione che non aveva saputo e voluto denunciare gli uccisori, mette a ferro e fuoco il paese. Tutte le case vengono incendiate tranne due: una perché nascosta in mezzo ai boschi ed una perché ospita un morto.
L’abitato, un poco sparso sul verdeggiante declivio collinare ricco di grotte e cavità, si distingue per il nucleo più a monte, dove accanto ad un agglomerato di case fa spicco la secentesca Parrocchiale dedicata all’Annunciazione, edificata nel 1679 su progetto di Andrea Fantoni.
All’interno sono conservate alcune opere di bottega fantoniana, come il pulpito ligneo e l’altare maggiore, che colpisce per il disegno raffinato e la policromia dei materiali impiegati (verde antico, marmi, lapislazzuli) e data 1694; numerose le tele del sei-settecento di scuola veneta tra le quali spiccano nel coro l’Annunciazione di autore ignoto del XVI secolo, il Sogno di San Giuseppe, una "Natività" (1771) di Gerolamo Castelli, una "Lavanda dei Piedi" (sec. XVII) attribuita ad Antonio Balestra, ed una "Annunciazione" (pala d’altare) d’autore ignoto del XVI secolo.
Non privo di interesse è il santuario della Madonna del Castello, costruito sul crinale del monte. Esso custodisce all’interno il settecentesco ciclo pittorico delle Via Crucis attribuita a E. Albrici ed alcuni singolari Ex voto. Il Santuario non è che un rifacimento di quello originario distrutto con tutto il paese dai Gallispani, Anteriormente a tale epoca, la chiesina del Monte Castello era la parrocchiale.
Nel nucleo principale, accanto alla Parrocchiale, si distinguono alcune vecchie abitazioni tra le quali il palazzo signorile dei principi Gonzaga, nell’originaria struttura architettonica del primo settecento: “Al Cardinale – Andrea Carlo Ferrrari- Arcivescovo di Milano – Reduce dei trionfi centenari – di S. Alessandro – nei giorni 29-30 e 31 Agosto 1898 – questa solinga pendice ospita – Offriva dolce asilo e sosta tranquilla – dopo i torbidi della metropoli.” recita la lapide murata a ricordo della sosta che il Card.Ferrari fece qui, nella ex dimora dei Principi Gonzaga.
Arroccata sopra la strada che lambisce il piccolo sagrato della chiesa ed adiacente ad essa, troviamo la casa Parrocchiale, edificata sugli avanzi di una piccola fortezza riconoscibile esternamente da alcune tracce di mura perimetrali con due abbozzi di torrette ai lati.
Sulla sommità del monte dove si ergeva un tempo una torre medievale, di proprietà dei Conti Calepio, che dominava dalla sommità del colle tutta la vallata e distrutta dai Francesi sul finire del XVIII secolo, in suo ricordo è stata eretta nel 1900 una enorme croce di legno dell’altezza di circa 11 m.
Divelta e spezzata da un furioso temporale, la croce, è stata sostituita da un’altra in ferro, eretta per volontà del Principe Gian Maria Gonzaga nel 1929. Alla base, un altare in pietra reca la scritta: “Al Re – dei secoli, immortale, invisibile; - al solo Dio; onore e gloria – Così sia”.
Nella parte bassa del territorio, verso Credaro, le "Molere", cave dove già in età romana venivano ricavate grosse macine per il grano, attività che è proseguita per secoli fino al definitivo abbandono nel dopoguerra.
E’ un luogo suggestivo, che richiama alla memoria il duro lavoro dell’uomo ed il forte legame con la terra, dove sono ancora visibili le tecniche di scavo nella roccia delle macine, lasciate incompiute dagli ultimi artigiani cavatori.